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Qui Radio Mosca: c’è qualcosa che nessuno vi ha detto sul Mondiale. Che forse sentite lo stesso. Perché chi se ne frega che abbia vinto la Francia o la Croazia (beh certo, fosse stata l’Italia…)

di Tancredi Palmeri
Inviato di beIN Sports, opinionista per la CNN, ogni settimana presenta la Serie A in 31 paesi stranieri
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Qui Radio Mosca, è l’ultima corrispondenza di Russia2018, siamo sul treno per San Pietroburgo per disperdere la malinconia per questo Mondiale che si allontana nel tempo e che dice a ognuno di noi che si chiude un periodo della nostra vita, ché ammettiamolo: tutti ragioniamo scandendo le nostre vite con i Mondiali di calcio.
Se ne va tutto, ma non si perde niente. Di questi 40 giorni da testimone privilegiato del mondo che torna alla sua natura primordiale di unicità e fratellanza, rimane tutto.
Rimane come la vita dovrebbe essere: non tanto per la festa per le partite di calcio, che alla fine quelle sono soltanto contorno, chi se ne frega alla fine se vince la Francia o la Croazia (beh ovvio, se in mezzo c’è l’Italia hai voglia che ci frega).
Rimane come la vita dovrebbe essere, comunque: ovvero questo entusiastico spontaneo slancio verso gli altri che tutti, davvero tutti, sentono quando c’è il Mondiale. Che ti nasce naturale se sei sul luogo in cui si disputa, ma che in verità sentite anche voi dovunque siate, che dà un patrimonio comune, condiviso, a ognuno di noi, giovani e vecchi, uomini e donne, qualsiasi nazionalità, gente sconosciuta tra loro che però sente un senso di appartenenza e una gioia nel condividere con gente che non conosce e di cui non parla nemmeno la stessa lingua.
E quello che è successo in Russia è questo, ma accelerato dai battiti dell’emozione. Non tanto quella negli stadi.
Ma quella in Piazza Rossa ad esempio: dopo aver finito i collegamenti all’una di notte in diretta per la mia televisione, varie volte mi è capitato di buttarmi in mezzo agli altri - che giocavano al torello.
Ve lo ripeto, cosicché possiate immaginarlo bene: decine di persone da tutto il mondo, a notte fonda, in un cerchio gigante, che facevano torello ridendo e gridando, davanti alla polizia russa, davanti al Cremlino, davanti al mausoleo con la salma di Lenin. Tifosi davvero di tutto il mondo: russi, tedeschi, arabi, palestinesi, israeliani, cinesi, tutto il Latinoamerica unito, inglesi, e questo italiano qua che vi parla.
Ho chiesto ai russi, che sulla stessa Piazza Rossa si sedevano per terra a ciacolare o fare picnic con un po’ di alcol manco fosse un concerto rock, gli ho chiesto se fosse la normalità questa, se d’estate con il bel tempo fosse usuale che i moscoviti si appropriassero della Piazza Rossa. Mi hanno risposto che non l’avevano mai visto.
L’emozione di San Pietroburgo, energia eterna che ti ridisegna e ti rigenera, nelle notti bianche di giugno senza notte nera, dove per coincidenza si sono trovati assieme i brasiliani che erano in città i giorni dopo Brasile-Costa Rica del 22 giugno, e gli argentini che venivano a vedere Argentina-Nigeria del 26 giugno. Entrambi avevano deciso di allungare in un senso o nell’altro il loro soggiorno per potere vedere la immaginifica festa delle Vele Scarlatte del 23 giugno che riversa due milioni di sanpietroburghesi in strada, e praticamente è finita che si sono presi la città in maniera surreale ed esilarante, argentini su un marciapiede, brasiliani sull’altro, a cantarsi cori di scherno su Messi o sul 7-1, con la polizia in mezzo a stare attenta che non si degenerasse, ma in verità c’erano solo risate e salti.
Ma soprattutto l’emozione di un popolo, quello russo, che finalmente ha potuto accogliere il mondo a casa sua, non solo turisti, e il mondo che finalmente è andato a conoscerli questi russi, non solo i monumenti, e da entrambe le parti c’era l’innocenza tenera e infantile dello scoprire qualcosa così grande e così sconosciuto.
E questo nonostante il livello di inglese in Russia rasenti lo zero - e santo chi ha inventato la app di Google Translate che permette di tradurre un audio in tempo reale, vero The Best del Mondiale - eppure anche così si è arrivati l’uno all’altro, con un sentimento che è innato dentro di noi, basta solo avere la possibilità di farlo uscire.
Si dirà: non è la vita vera, è utopia.

Ma a questo serve l’utopia: è l’orizzonte verso cui cammini e che non riesci mai a raggiungere. Tu cammini e non lo raggiungi. Ma il concetto non è raggiungerlo: l’utopia serve a farti camminare avanti.
Siamo tutti diversi dopo questo Mondiale in Russia, perfino chi vi scrive, a cui una notte a Mosca si è parata di fronte una bambina che non avrà avuto più di 6 anni, per chiedere l’elemosina. Un evento raro in questo mese, perché è evidente come Putin abbia accuratamente asportato fuori città i senza tetto e il mondo sommerso.
Non aveva senso che quella bambina alle 3 di notte fosse in centro a Mosca a chiedere l’elemosina, dunque le ho chiesto (si fa per dire: mi sono fatto capire, diciamo) dove fosse la sua mamma. Era a una ventina di metri più in là, a osservarci seduta in un’aiuola. E con la presunzione di fare del bene, dopo aver fatto contenta la bambina, sono andato dalla madre a darle il mio stupido rilievo per quello a cui stava sottoponendo la bambina: “Non dovresti farle fare l’elemosina a quest’ora” ha detto in russo Google Translate in mia rappresentanza. Che Dio mi possa perdonare.
E mentre stavo per andarmene, la giovane madre mi ha afferrato il braccio per poter parlare al Traduttore, raccontandomi che era stata abbandonata da una settimana dal marito con cui era venuta dal Tagikistan, e che era stata all’ambasciata ma le servivano molti soldi per poter comprare il biglietto di ritorno, e che da 7 giorni dormivano con la bambina nel parco più centrale, ma solo di giorno, perché di notte la polizia veniva a fare sgomberare.
Non ho ancora nei miei 37 anni trovato le parole per descrivere il sorriso della bambina quando guardava questa app che traduceva immediatamente quello che dicevamo, la sua emozione nel poter partecipare.
Siamo rimasti un’ora assieme, in cui mi ha raccontato la sua storia, e poi prima di andare via mi ha chiesto: “Ma tu non hai bambini?”. E alla mia risposta negativa, lei, disperata tra i disperati, rinnegata e in pericolo, mi dice: “E perché mai? Guarda quante cose belle da vivere ci sono intorno”.
Lei, a me.
Amina e Zadara, o almeno così ho capito si chiamassero, di 6 e 31 anni.
Il Mondiale forse serve anche a questo, a ricordarci quanto c’è di bello attorno.
Qui Radio Mosca, sul treno per San Pietroburgo, per l’ultima volta passo e chiudo.

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Lunedì 31 Dicembre 2018
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