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Vecchioni: padre milanista, origini napoletane, ma con una profonda passione a tinte nerazzurre

di Chiara Biondini
Fonte: di Alessio Calfapietra per TMWmagazine
di Alessio Calfapietra per TMWmagazine
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A due anni dal trionfo sanremese, Roberto Vecchioni torna in grande stile con l'album "io non appartengo più". Tredici brani senza retorica, attraversati dalla consueta vena lirica che 47 anni di carriera hanno reso un inconfondibile marchio di fabbrica. Nonostante il suo passato didattico, il cantautore lombardo evita di impartire lezioni ad un'epoca che non sente più propria, anzi preferisce abbandonarsi ad una lunga riflessione che spazia dal mito all'autobiografia, dai diritti civili al racconto di donne coraggiose. Non consideratelo un "bandolero stanco", perché lui si sente come un ventenne. Anche se Baudelaire ci ha insegnato che il tempo è un giocatore avido che vince senza barare, Vecchioni è rimasto sempre lo stesso: ad essere cambiato è ciò che lo circonda, in primis una tecnologia diventata invasiva ed alienante, come l'uso improprio della democrazia che ne contraddice il reale significato. Neanche l'amore per l'Inter patisce i segni dell'usura, e la nostra amabile conversazione con il Professore, candidato di recente al Nobel per la letteratura, lo dimostra in modo chiaro.

"Io non appartengo più". Se davvero è una dichiarazione di inadeguatezza, a chi si riferisce? A lei o al mondo che la circonda? O forse lei, per dirla con Nietzsche, si considera inattuale? "Mi sono sempre definito un poetastro e anche in questo senso di mancata appartenenza, che provo e non solo canto, un senso che non è solo mio, ma di tante persone, non solo in Italia, ci sono più aspetti umani che intellettuali. C'è l'uomo che ha sempre combattuto e che ora chiede una pausa, un uomo che ha bisogno di affidarsi alle certezze più naturali della sua vita in un periodo nel quale altre certezze non si possono avere. Quindi io non appartengo a questo tempo per come lo interpreta la maggioranza, il fiume che scorre, e preferisco restare in attesa di un nuovo umanesimo avendo come punti di riferimento la famiglia, le mie nipotine, gli amici che non sono stati di paschiaro, per non appartenere a un certo tempo bisogna comunque viverlo, sentirlo, analizzarlo, quindi io appartengo ancora a certe lotte, a certe situazioni, ma a 70 anni non posso più battermi sul ring come ho fatto per tanto, tantissimo tempo, con la forza di un giovane che sogna di cambiare il modo e di non farsi cambiare da lui".

"Ho conosciuto il dolore" è una lirica coraggiosa nei riguardi del suo vissuto, si sente di dedicarla anche a tutti i malati che la ascoltano? "Chi ha conosciuto il dolore non ha bisogno di dediche. In questo testo in musica si ritrova o non si ritrova semplicemente ascoltandolo. Tante persone mi hanno scritto sottolineando che il sentimento di rivolta al dolore lo hanno provato anche loro. Il testo esalta la vita, che è più forte di tutto e di tutti, soprattutto del suo opposto, dei suoi oppositori".

Il suo impegno nel sociale è noto. Queste settimane sono all'insegna della lotta alla sclerosi multipla, cosa si deve fare perché di questa malattia ci si occupi tutto l'anno? "Bisogna parlarne senza pregiudizi, bisogna studiarla, bisogna viverla e soprattutto non appartenere a quelli che, a comando, s'interessano di una questione e poi il giorno dopo si girano dall'altra parte. E bisogna battersi sempre e comunque per la ricerca, socialmente e non solo quando i problemi aprono la porta di casa nostra".

Passiamo allo sport. Lei disse di essere diventato tifoso dell'Inter per ripicca, può raccontarci quello che è successo? "Molto semplice, è successo a me come a tanti altri: è stata una scelta di rivolta contro mio padre milanista, un padre che per altro mi ha regalato tantissime emozioni, con il quale ho e abbiamo avuto io e mio fratello Sergio un rapporto intensissimo, però noi dell'Inter e lui del Milan. Forse, inconsapevolmente, anche un'opportunità di dialogo e di discussione in più".

Quale è il ricordo migliore che conserva come tifoso? "E' chiaro che i ricordi di quando sei giovane sono bellissimi, anche perché sono abbinati a altre situazioni, magari a una fidanzata di allora o a un amico che non c'è più e con il quale andavi a San Siro, quindi il ricordo della Grande Inter o dell'Inter di Boninsegna, l'ultima volta in campo di Facchetti, una punizione di Corso, la rapidità di Mazzola. Poi è arrivato il Triplete e allora il ricordo di Madrid è fortissimo: dopo la partita mi sono perso dentro la felicità della vittoria e mi sono ritrovato in un locale dove c'erano tanti tedeschi. Sono stati carini, simpatici, molto sportivi, anche se credo che le birre avessero fatto la loro parte... ".

Lei sostenne che l'interista è programmato alla sofferenza e gli eventuali successi sono come delle vittorie di Pirro. Si sente di confermare tutto ciò dopo il mitico triplete? "Ho sempre sostenuto che l'interista ha un determinato DNA, vive più l'attesa che il godimento, il sabato del villaggio piuttosto che la partita. L'interista è molto critico, ha sempre una sua opinione, non segue mai il branco e questo lo porta a provare una gioia immensa, quando si vince, ma sempre particolare, una felicità molto esistenziale, a tratti dubbiosa. La vittoria del Triplete è stata la somma di stagioni splendide, nelle quali girava anche tutto dalla parte giusta. Con Mourinho, in quell'anno, avremmo anche potuto vincere il Giro d'Italia o il mondiale di Formula 1 se fossimo stati una squadra di ciclismo o un team di piloti. Infatti io ho pure vinto a ruota il Festival di Sanremo... E queste vittorie ci hanno in parte ripagato di un periodo nel quale, in Italia, non potevamo vincere, non tecnicamente, ma sistematicamente".

E' soddisfatto dell'avvio di Walter Mazzarri? Pensa sia il tecnico della rinascita? "E' un lavoratore, un professionista, ha messo ordine, sta programmando la crescita della squadra. Va bene così. Mi piace chi, come Mazzarri, fa quello che sa fare, chi è sempre se stesso".

Cosa si aspetta dall'avvento di Thohir? Credo che lei potrebbe scrivere un album intero sulle differenze tra il romanticismo di un presidente tifoso e del magnate che gli succede... "Il cuore sta, stava e starà sempre, con Moratti. La ragione con Thohir. E noi interisti dobbiamo stare con la nostra squadra, non cambiarla mai per nulla al Mondo". Un pensiero al Napoli, squadra che le sta molta simpatica per via delle sue origini. "Il Napoli ha saputo costruire un progetto importante, è risalito dopo una lunga caduta, ha tifosi straordinari fra i quali anche alcuni miei parenti. Pensavo potesse vincere lo scudetto già nella passata stagione. Beh, se non lo vince l'Inter, che vinca il Napoli, senza dubbi, anche se nella prima parte del campionato la Roma mi ha incantato".

Per chiudere: il suo augurio è che si accendano di nuovo le Luci a San Siro... "Le luci di San Siro per l'Inter sono sempre accese, per altri no, soprattutto le mie...".

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Lunedì 31 Dicembre 2018
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