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È caduta la Muralha. Un altro pezzo di Brasile che scompare

di Andrea Losapio
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"Nel 1962 Djalma Santos fu una muraglia". La frase è di Eduardo Galeano, uno dei migliori scrittori del globo, innamorato del calcio e delle sue imperfette rappresentazioni. E, soprattutto, cronista di alcuni dei migliori spettacoli di sempre, perché il futbol, seppur non sempre bailado, in Uruguay è vita, speranza, riscatto sociale. Forse più che in Italia, perché il Rio De La Plata vale più delle Alpi nel mondo della rivalità pallonara, in una scala ipotetica che tiene conto del campanilismo fra nazioni. La garra charrua degli uruguagi contro la ostentata classe degli argentini, due popoli così simili da essere inevitabilmente divisi dalle proprie peculiarità. E da quella partita, nel 1930, che decise il primo Mondiale - dopo due Olimpiadi vinte dalla Celeste - giocato proprio nella patria di Galeano. Nel 1962 non era Uruguay, non era Argentina, ma Cile e Brasile. Il primo il paese ospitante, con qualche arbitraggio casalingo e qualche scandalo mai troppo approfondito. Il secondo il vincitore, che riuscii a bissare la grande impresa raggiunta in Svezia nel 1958.
Muralha diviene così l'apelido, oltre a Lateral Eterno, di quel Djalma Santos nato a San Paolo del Brasile nel febbraio del 1929, con la borsa che ancora volava e in pochi pensavano a una prossima crisi così sconfortante del Continente americano.
Il cuore di Dejalma Pereira Dias dos Santos ha smesso di battere ieri, all'età di 84 anni, all'ospedale Helio Angotti di Uberaba. Nella stessa città dove, fino a qualche tempo fa, giocava settimanalmente una partita di calcio per evitare la ruggine. Insufficienza respiratoria dopo che il primo di luglio era stato ricoverato in condizioni comunque gravi.
Al netto di Muralha, Djalma Santos, in Brasile, era già una leggenda da parecchio tempo. Da dieci anni calcava il prato con la maglia verdeoro nazionale, e quello dei fantasisti è un numero che si ripete spesso nella sua vita da atleta. Dieci anni alla Portuguesa, diventando un mito per il club di San Paolo, passando poi al più prestigioso Palmeiras. Dove stravince tre campionati Paulisti e due volte la Taça do Brasil, l'attuale Brasileirao. In un momento storico dove il Santos, con il mito Pelè, faceva manbassa di titoli e allori. E poi c'era il Botafogo di Garrincha, miglior giocatore di Cile 1962, e di Didì, regista che nel 1958 strabiliò il mondo come tutti i suoi compagni di squadra, con quel doppio 5-2 a Francia e Svezia (tra semifinale e finale). Un campionato brasiliano di indubbia difficoltà, quasi impossibile da vincere pure se avevi Vavà come compagno di squadra. E ci voleva pure un po' di fortuna. Come nel 1958, quando Djalma Santos diventò Campione del Mondo prendendo parte solamente alla finale, sostituendo l'infortunato De Sordi, che non ce la faceva proprio a essere in campo. Ciononostante venne inserito nella top 11 del torneo, sapendo solamente due giorni prima che sarebbe stato titolare in uno dei più grandi Brasile della storia.


Non voleva diventare un calciatore, nella sua vita, bensì un pilota d'aerei. Ovviamente per emulare il padre, militare, ma come in tanti nel Brasile dell'inizio secolo scorso non aveva i soldi per iscriversi a una scuola di volo. Ripiegò facendo il calzolaio, facendosi male a una mano - scordandosi, di fatto, voli non solo pindarici - e dilettandosi a calciare il pallone solamente nei weekend. Le sue doti, però, furono notate dal Corinthians, che non riuscì a tesserarlo perché lui gli preferì, appunto, il Portuguesa. Di giorno si allenava, di notte continua a fare il calzolaio. Impensabile al mondo d'oggi.
Djalma Santos ha rivoluzionato il ruolo di terzino destro. È diventato l'emblema del "numero due", pur indossando il 4. Non più ancorato alla linea difensiva, bensì irresponsabile ala arretrata solo perché c'era qualcuno ancora più bravo di lui a saltare l'uomo - Garrincha, appunto - ma capace di difendere con la stessa abilità dell'affondo. Più o meno come Cafù, come caratteristiche, e come storia personale assimilabile a Leonardo nel Brasile 1994. Però, incredibilmente, era nato come centrocampista centrale e non come esterno d'attacco. Si ricordano pure le sue lunghe gittate, rimesse laterali che diventano veri e propri cross killer per le difese, operazioni riprese poi in tempi moderni da Rory Delap al Britannia Stadium, casa dello Stoke City.
E poi era un difensore gentiluomo. In ventuno anni di carriera non ha mai visto sventolarsi il rosso sotto il naso, incredibile per un giocatore difensivo. Ma non solo: in una partita a San Paolo lo subissarono di fischi per tutto il tempo. Invece di uscire indignato, calciando il pallone verso la tribuna - ma solo in un match amichevole - Djalma Santos continuò a giocare. Diventando leggenda: rimessa laterale, piove uno "sporco negro" dagli spalti, oltre all'anello di chi lo ha appena insultato. Lui lo raccoglie e lo ridà al suo legittimo proprietario, chiedendo se andasse "tutto bene".
Djalma Santos è ricordato pure perché c'è un pezzo d'Italia nella sua vita: negli anni 80, a Bassano del Grappa, aprì una scuola di calcio completamente in controtendenza. Non agonismo, ma più voglia di giocare a pallone, quello sano e genuino, che in Uruguay, ma anche in Argentina e Brasile, significa riscatto sociale. Ma soprattutto divertimento. È un altro pezzo di storia del calcio che se ne va, come Didì, Vavà o Garrincha. Che, c'è da crederlo, ora staranno divertendosi tutti insieme calciando un pallone.

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