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Moreno Roggi: una vita tra calcio e solidarietà

di Chiara Biondini
Fonte: di Luca Bargellini per TMWmagazine
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© foto di Federico De Luca

Nel mondo del calcio sono in pochi a poter vantare di aver ricoperto nel corso della propria vita professionale molti fra i ruoli più importanti che questo ambiente mette a disposizione. Calciatore, direttore sportivo e, oggi, procuratore, sono le tre tappe che hanno fatto di Moreno Roggi uno dei grandi di questo sport. "Avevo solo 25 anni quando ho appeso le scarpette al chiodo - ci spiega dagli uffici della Playground, nella zona sud di Firenze -. Giocavo ad Avellino e arrivato il mese di dicembre decisi di smettere a causa dei miei infortuni. Nella stagione successiva, 1978/1979, entrai nella dirigenza del Prato in qualità di direttore sportivo. Ero molto giovane e per darmi un tono con i giocatori che erano più grandi di me mi vestivo sempre in maniera molto seria, con giacca e cravatta".

Il passaggio da dirigente a procuratore com'è avvenuto? "Dopo l'esperienza al Prato ho lavorato per Lucchese, Spezia, Reggiana e due mesi a Taranto quando poi ho capito che non volevo più obbligare la mia famiglia a girare l'Italia. Era la metà del 1983 e ho iniziato a guardarmi attorno nel tentativo di capire cosa potessi fare in questo ambiente".

In quell'epoca il ruolo dell'agente non era ancora ben definito. "C'era Antonio Caliendo che aveva già intrapreso questa strada, ma con i giocatori che erano vincolati alle società, il ruolo del manager non era legato alla mera gestione dei contratti. Dario Canovi, d'altro canto, lavorava per l'AssoCalciatori in qualità di avvocato e dalla sua posizione iniziò a muoversi sulla tutela dei giocatori. Quello che però ancora mancava era la mentalità".

La situazione quando cambiò? "Dopo la vittoria del Mondiale nel 1982. Due anni prima era arrivato in Italia Paulo Roberto Falcao assistito da un certo Cristoforo Colombo, capace di strappare alla Roma un'ingaggio ben superiore allo stesso Bruno Conti che in Spagna conquistò il titolo di Campione del Mondo. Assieme al dott. Guaglieri, nel 1984 sono riuscito a creare la mia società la Playground, ormai arrivata al ventottesimo anno d'età".

Quali furono le sue prime mosse in questo ambiente? "Inizialmente parlai con quei giocatori che fino a pochi anni prima erano stati mie. Poi ho sentito anche quelle che erano le opinioni di coloro, come Andrea Carnevale e Antonio Imborgia, erano stati miei calciatori durante la parentesi da direttore sportivo. Feci questo per capire la fattibilità della mia idea e se veniva accolta favorevolmente. Tutto andò in maniera positiva perché i giocatori per la prima volta avevano una persona terza, esterna anche sul piano emotivo, che li tutelasse nella sede della società per trattare le situazioni contrattuali. Spesso, infatti, i giocatori, non hanno una chiara valutazione di loro stessi, o si sottovalutano o si sovrastimano. Dico questo perché era ciò che succedeva anche a me".

Fra le tante trattative portate a termine ce n'è una che ricorda in modo particolare? "Direi quella con il presidente Lotito per portare Paolo Di Canio alla Lazio. Si trattava di trovare la posizione giusta fra due personalità molto forti. Una dote fondamentale per fare la professione del procuratore è quella di capire ciò che è meglio per il suo assistito, andando anche contro, se necessario, alla convinzione del giocatore stesso per poi convincerlo di ciò che è giusto fare. Serve ragionare, senza emotività nel mezzo. Soprattutto in un epoca di ristrettezze economiche come quella attuale".

E come si convince un giocatore dal carattere deciso come quello dell'ex attaccante biancoceleste?
"Paolo è stato il giocatore che mi ha dato la possibilità di estrinsecare tutte le sfaccettature del mestiere del procuratore. Durante la sua carriera siamo passati dall'aver "toccato" l'arbitro durante la sua avventura in Premier League a grandi stagioni come quella con il Napoli. Proprio dopo la sua avventura in azzurro Di Canio ha dato prova della sua grande personalità".

Ovvero? "Il cartellino di Paolo era di proprietà della Juventus e dopo la stagione in prestito in Campania tornò a Torino. La società bianconera però decise di non confermarlo e così mi misi alla ricerca di una nuova sistemazione. Arrivò il Genoa, non c'erano altre alternative, ma parlando con lui decidemmo di attendere ancora. Nonostante a me non piaccia lasciare il certo per l'ignoto, Paolo riuscì a trasmettermi tranquillità. Lui continuò ad allenarsi da solo e poco dopo io riuscì a portargli una proposta da parte del Milan. A quel punto mi guardo e disse: "Hai visto che avevo ragione io ad aspettare".

Davvero notevole. Parlando invece di giovani promesse, come occorre comportarsi e cos'è importante per la fase di scouting? "Sarà una banalità ma oggi sono decisive la competenza e i contatti. Quando ho iniziato a fare questo mestiere non c'era molta concorrenza e così avevo abbastanza campo libero. Andavi al Viareggio, che era il vero banco di prova, e ti mettevi in contatto con i giocatori che ti interessavamo, magari grazie ad altri tuoi assistiti che militavano nel medesimo club. E' in questo modo che sono arrivato a conoscere i vari Lentini e Venturin: grazie a Silvano Martina che avevo fatto trasferire dal Genoa al Torino dove giocavano i due ragazzi".

E' così che è andata anche con Massimo Ambrosini, capitano del Milan? "Esattamente. Quando lui era a Cesena avevo in procura Scarafoni che giocava nella stessa squadra. Fu lui a dirmi, "Guarda qua c'è un ragazzo davvero forte". Andai in Romagna a vederlo giocare, poi parlai sia con lui che con la famiglia a Pesaro e chiudemmo l'accordo. Un'avventura che dura ancora oggi nonostante siano passati diciassette anni". Oltre al Moreno Roggi procuratore ne esiste anche un altro molto impegnato nella solidarietà verso i calciatori meno fortunati. "Grazie all'associazione delle "Glorie Viola", composta da tanti ex giocatori che hanno vestito la maglia della Fiorentina cerchiamo di dare una mano a chi ne ha bisogno. E' un'attività che mi gratifica molto a livello personale perché mi dà l'opportunità, assieme a tanti amici di una vita, di aiutare chi non se la passa bene".

Un'avventura che proprio grazie a lei ha conquistato una dimensione più importante. "Le "Glorie Viola" esistono da molto tempo. Nel 1979 partecipai ad un campionato italiano di ex giocatori che vincemmo a Bologna. Poi assieme a tanti ex colleghi che però io reputo soprattuto amici abbiamo iniziato a pensare a come aiutare coloro che avevano bisogno. Ci siamo autotassati e grazie anche ad alcuni sponsor siamo riusciti nel nostro obiettivo, tanto che oggi siamo in grado di fornire assistenza medica e riabilitativa attraverso una struttura presente presso l'ospedale fiorentino di Careggi gestita dal professor Galanti".

Chiudiamo con un salto nel passato. Abbiamo parlato dell'esperienza da dirigente, di quella di procuratore e anche del suo contributo nel sociale, ma c'è qualche rimpianto per ciò che non è stata la carriera da calciatore? "Nessuno. Trenta anni fa ho reagito senza mai pensare al fatto che avrei potuto giocare per altri dieci anni, ma ricordandomi sempre che ho avuto una bellissima carriera che però è durata sei anni. Anzi, forse ho avuto il vantaggio di dover iniziare a guadagnarmi da vivere nel mondo reale all'età giusta, attorno ai 25 anni, anziché a 40. Quella è l'età giusta per iniziare a pedalare".

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