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La Figc mormorò: non passa lo straniero

di Alessio Calfapietra
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Un vecchio motto latino, che evitiamo di citare testualmente per non tediarvi, considerava la malizia di chi giudica un evento effetto diretto di un altro evento, soltanto per essere accaduto dopo di quest'ultimo. Siccome non siamo maligni nè maliziosi, eviteremo dunque di considerare la catastrofe azzurra in Sudafrica quale fondamento della recente riduzione del numero degli extracomunitari tesserabili, come del resto smentito dagli stessi diretti interessati. Quale sia stato il motivo scatenante di questa scelta, osteggiata fermamente dalla Lega Calcio, se ne possono però considerare portata ed effetti. Si ritorna alla situazione del 2008, quando si poteva ingaggiare dall'estero un solo calciatore extra UE per anno solare, limite poi ampliato e infine nuovamente ridotto. Quale sarebbe il vantaggio per i vivai nostrani? Nessuno: se la missione primaria del settore giovanile è quella di formare calciatori selezionabili per le varie rappresentative nazionali, è indifferente se i vivai ospitino dieci ragazzi danesi oppure provenienti dal Kenya, visto che nessuno di questi, salvo naturalizzazioni che prevedono condizioni di legge ben precise, potrà indossare nel tempo la maglia azzurra. Una nostra recente inchiesta ha scoperto che il 15% dei vivai è composto da giocatori stranieri, una cifra troppo alta se si ha a cuore il prodotto Italia. Occorrerebbe dunque prevedere misure specifiche a sostegno della formazione dei calciatori di nazionalità italiana, originaria od acquisita, perchè il ricambio generazionale proceda senza intoppi e non si rischi di saltare una generazione. Misure che deroghino alla libera circolazione dei lavoratori in ragione della specificità dei vivai nazionali e che impongano un numero massimo di calciatori non italiani in organico, stante la difficile configurabilità di un gentlemen's agreement tra i vari presidenti. Gli effetti, ovviamente, non si vedrebbero prima di cinque anni. In linea generale il problema non riguarda i vari Maldini, Baggio o Cassano (i talenti assoluti emergono in ogni contesto), ma quella selva di giocatori di fascia media, i quali necessitano di tempo e pazienza per diventare elementi affidabili e di possibile proiezione, e che oggi si perdono in un rivolo di prestiti perchè i dirigenti preferiscono ricorrere al nome esotico di turno che magari costa poco e rende ancora meno. Si dovrebbe far passare l'idea che sia utile inseguire la pista straniera solo se questa possa dare un valore aggiunto, ma nel caso la sua resa fosse uguale o inferiore ad un pari livello italiano, sarebbe al contrario opportuno desistere. Non potremo tornare ai tempi del Piacenza di Leonardo Garilli, con una formazione interamente tricolore e che quasi ogni anno vinceva il suo scudetto, cioè la salvezza o la promozione in serie A. Il suo pensiero al riguardo suonava press'a poco così: "E' raro trovare uno straniero che faccia la differenza, figurarsi se questo verrebbe qui a Piacenza". Ma tale proposito rimarrà disatteso ed una volta finita l'onda emozionale della figuraccia sudafricana, nessuno parlerà piu' di questa situazione, salvo poi accorgersi, in occasione degli Europei, che qualcosa di concreto andava fatto.

Strettamente connessa allo svecchiamento del calcio è la questione dei suoi costi, un altro nodo gordiano da sciogliere quanto prima. Finalmente è stata svuotata di senso l'affermazione, semplicistica e sbrigativa, secondo la quale gli altissimi guadagni garantiti ai giocatori sono giustificati dal giro di denaro che genera la loro attività. Se così fosse, non si spiegherebbe l'indebitamento accumulato dall'intero sistema e che spinge squadre anche dal management importante a tirare la cinghia. Lo scorso anno parlavamo della scarsa competitività delle nostre società dal punto di vista economico, quest'anno potremmo allargare il discorso all'intero Continente, fatta eccezione per il Manchester City degli sceicchi che però non fa testo. Il fair play finanziario di prossima vigenza giunge come una manna dal cielo, visto che entro il 2019 nessun club in Europa potrà spendere piu' di quanto fattura. Un'applicazione progressiva negli anni che consentirà ai club spendaccioni di riequilibrare le proprie finanze in attesa del 2012, quando sarà vigente il primo step della normativa che renderà impossibile ricapitalizzare per piu' di 45 milioni di euro in tre anni. Dal 2015 il limite verrà portato a 30 milioni nel triennio, sino all'auspicato pareggio tra ricavi e costi. Chi paventa un impoverimento generale del pallone si sbaglia: i campioni continueranno ad esserci e transitare da una nazione all'altra, ma il loro prezzo, ad oggi assolutamente drogato, si assesterà su livelli piu'accettabili dal punto di vista economico e, ci sia concesso aggiungerlo, morale. In tutto questo, le spese per il sostentamento del vivaio e per la costruzione e mantenimento dello stadio saranno illimitate e non conteggiate. Ernesto Paolillo ha giustamente avanzato due timori a "Ilsole24ore". L'Italia uscirebbe ancora una volta perdente dal punto di vista degli stadi rispetto ai competitori inglesi, ma qui si tratta di un problema per il quale chi gestisce il calcio dovrebbe mordersi i gomiti, e lascerebbe campo a Real Madrid e Barcellona che, organizzate sulla base dell'azionariato popolare, avrebbero il vantaggio di poter ascrivere i versamenti dei soci non alla voce relativa all'aumento di capitale, bensì a quella inerente ai ricavi. In questo caso si tratta di una legge di diritto civile spagnolo per il quale non si può far nulla, se non sollecitarne una modifica. In passato si sono già registrati momenti di austerity, ai quali si sono susseguite nuovamente delle condotte spericolate, l'auspicio è che l'anomalia per la quale anche giocatori appena discreti pretendevano tre milioni di euro come se piovesse, finisca nel passato da confinare in un angolo buio e inaccessibile.

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Lunedì 31 Dicembre 2018
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