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Il bello dei debuttanti

di Alessio Calfapietra
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© foto di Filippo Gabutti

Complice la pausa per il doppio impegno della nazionale, si è fatto un gran parlare dei primi passi di Leonardo sulla panchina del Milan. A dire il vero, remore e dubbi sono stati sollevati sin dal momento in cui il nome del brasiliano è stato accreditato per la successione a Carlo Ancelotti. In un momento di comprovato declino societario, la nomina del brasiliano è parsa una soluzione improntata all'aziendalismo più sicuro, un soffio di vento quando era attesa la tempesta per scuotere un ambiente intorpidito dalla partenza di Kakà, da un campionato anonimo e dal mercato che si preannunciava avaro di gratificazioni. Una decisione aggravata, sempre secondo la visione dei critici, dal non trascurabile fatto che Leonardo non è un allenatore. Messa alle spalle una carriera scintillante, infatti, Leonardo ha vestito giacca e cravatta e si è seduto dietro una scrivania mobile, nel senso che ha viaggiato a lungo alla scoperta di suoi connazionali in erba e si è speso per convincere i campioni locali a sposare la causa del Milan. Con successo, senza dubbio, ma in un orizzonte diverso da quello che molti suoi colleghi hanno scelto, e cioè insegnare calcio e schemi dopo aver passato una vita ad apprenderli. Sino al primo, frettoloso riconoscimento formale dello scorso luglio, quando ha preso il tesserino di seconda categoria che gli permette almeno di andare in panchina accanto a Tassotti. In poche settimane il brasiliano è stato sbalzato su una delle panchine più prestigiose del mondo, in pratica uno stage dorato, quasi fosse un ragazzo alle prime armi nel giornalismo che effettua il tirocinio scrivendo editoriali sul "Corriere della sera". I conti non tornano, perchè Leonardo è educato, poliglotta, buca lo schermo ed è affabile nei modi, ma sta studiando per diventare un allenatore. Il Milan può permettersi di subire sulla propria pelle gli errori di inesperienza di un aspirante tecnico? No, e la risposta viene dalla catastrofe del derby e dal pareggio risicato - tranne che per l'ultima mezz'ora - ottenuto sul campo del Livorno. Vi sono precedenti illustri in questo campo, come Fabio Capello che addirittura si stava dedicando ad un altro sport, l'hockey, e al primo colpo ha centrato un fantastico tris di scudetti, o di Roberto Mancini che ha forzato i regolamenti federali per sedersi anzitempo su una panchina. Ma in quel caso Mancini, da sempre ritenuto un "allenatore in campo", aveva cercato con voglia ed insistenza quel posto, dimostrando col tempo, e non senza incidenti di percorso, di esservi tagliato. Non da ultimo serpeggia una certa invidia da parte di tecnici nostrani, dal curriculum ineccepibile e rimasti a spasso, tagliati fuori dall'arrivo di personaggi di recentissima formazione, come Ciro Ferrara, o dall'anagrafe giovane e rampante, come Atzori, Allegri, Giampaolo e Ruotolo. Così, vecchi o "quasi nuovi" protagonisti del mestiere aspettano il loro turno e nel frattempo sperano nelle disgrazie (calcistiche) altrui.

Sorge però un interrogativo fondamentale: dove sarebbero oggi Fabio Capello, Arrigo Sacchi, Marcello Lippi e Carlo Ancelotti, se Milan e Juventus non avessero scomesso su di loro in tempi non sospetti? Di Capello abbiamo già detto, Sacchi era ancora un profeta di estrazione provinciale, Lippi aveva portato il Napoli in zona Uefa ma alle sue spalle si alternavano successi e fallimenti, Ancelotti non era andato sino ad allora oltre l'Emilia. Le grandi all'epoca hanno giocato d'azzardo, sbancando il tavolo. Ciro Ferrara, da parte sua, anche se alla Juventus non si è presentato completamente digiuno di precetti calcistici, sta ottenendo risultati impensati come il full di vittorie, cinque compresi i due blitz romani, su altrettante gare disputate dalla scorsa stagione, e chissà che da qui a maggio non ci troveremo a discutere di exploit al primo colpo. La pazienza, almeno per adesso, è d'obbligo. Chi non la sta mostrando sono due talenti indiscussi del nostro campionato, David Trezeguet e Francesco Totti. Due che hanno scritto un decennio e oltre di storia della Juventus e della Roma. Non più giovanissimi, stanno accusando dell'evidente nervosismo perchè il credito concesso loro si sta esaurendo. Il francese ha cercato tutta l'estate di fare le valigie ma il suo ingaggio principesco e l'ultima stagione passata ai box lo hanno trattenuto a Vinovo. Il romano e romanista Totti sta portando avanti un rinnovo contrattuale a vita (non solo sportiva) con la dirigenza giallorossa. L'uno, appreso di non avere più lo spazio desiderato, ha annunciato il suo addio a fine stagione, l'altro, infastidito e non poco dai bisbigli di certo tifo romanista che storce il naso di fronte alla sua conferma illimitata, anche nel senso di ingaggio, e stanco dei pettegolezzi che lo vorrebbero tra le cause dell'addio di Spalletti, ha preteso rispetto esclamando che il suo rinnovo contrattuale è più che meritato. Entrambi hanno un posto d'onore nei palmares delle rispettive squadre e del calcio italiano, ma se lo sentono sfilare dal passare degli anni e dal mutato atteggiamento della piazza. Anche in questo caso la pazienza è d'obbligo: va usata verso i novizi che potrebbero trasformarsi in fuoriclasse, ma va pretesa allo stesso modo dai campioni che vedono dietro di sè i migliori anni della carriera e devono essere coscienti, per il bene di tutti, che la loro luce può ancora illuminare gli stemmi e la maglia che hanno difeso sin dalla fine del secolo scorso. Trezeguet, nella vittoriosa trasferta laziale, lo ha già capito.

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Lunedì 31 Dicembre 2018
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