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I vitelloni

di Alessio Calfapietra
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© foto di Vincenzo Balzano

Ce l'ha fatta. Seppur con qualche mese di ritardo, Ibrahimovic è riuscito ad evadere dalla prigione nerazzurra. Da quando lo svedese ha detto di sentirsi come alla fine dell'esperienza con l'Ajax, senza stimoli e desideroso di provare nuove esperienze, l'addio all'Inter è entrato prepotentemente in agenda. Serviva soltanto un club di spicco pronto a soddisfare la voglia di competitività dell'attaccante: è spuntato all'improvviso il Barcellona e nel giro di pochi giorni - non una telenovela, casomai una miniserie - l'uomo dei cinque scudetti in cinque anni ha preso il volo. Con buona pace di tutti, tranne dei tifosi interisti che prima si sono visti offendere con gestacci da osteria, poi irridere con sorrisi di plastica ed infine salutare da un giocatore che non attendeva altro che una via di fuga. Sul lato economico nulla da dire: il pagamento cash dei blaugrana è considerevole, sulla contropartita tecnica nemmeno, al di là del carattere a dir poco spigoloso di Eto'o che farà presto rimpiangere la simpatia di fondo che suscita l'istrione Zlatan. Sul lato affettivo, si tratta di una ferita da curare nel tempo, e con l'unica medicina che ha qualche effetto in certi casi, e cioè le vittorie. Non vorremmo essere nei panni del felice Mourinho, il quale chiede Carvalho e gli danno Lucio, vuole Deco e si ritrova Hleb, vorrebbe trattenere il suo cannoniere ed ottiene invece Eto'o per il quale dovrà stravolgere il sistema di gioco. Non più fantasia allo stato puro o colpi di genio che risolvono una gara piatta e noiosa, ma trame di gioco coerenti e (si spera) vincenti che mettano il camerunense e Milito nelle condizioni di fare male. Moratti ha preferito agire di testa sua, ricordando da una parte le carezze dispensate ai campioni in vena di capricci, a torto considerati "figli", alle quali sono susseguiti in tutta risposta schiaffi o false promesse, o il credito accordato all'allenatore in sede di mercato, che ha avuto come effetto l'acquisto di Quaresma.

Un'ultima notazione sulla fuga di campioni dall'Italia: sia Kakà che Ibra, afflitti dall'ormai memorabile "mal di pancia", hanno trovato rifugio in Spagna. Una stranezza bella e buona (senza considerare che al mal di stomaco del brasiliano si è accompagnato il mal di bilancio milanista), visto che i climi caldi in generi favoriscono le turbolenze intestinali. In tema di presidenti che si fanno rispettare, arriva il De Laurentiis furioso che alza il suo urlo di sfida nel ritiro austriaco. Il bersaglio è Ezequiel Lavezzi, l'ormai ex idolo del San Paolo che in pochi mesi, in combutta con il suo agente, ha disintegrato a picconate il piedistallo che gli avevano eretto i tifosi del Napoli. Il pubblico partenopeo ha sbagliato obiettivo, elevando ad eroe e fuoriclasse un buon giocatore che ha ancora tanto da imparare in quanto a concretezza, costanza e freddezza sotto porta. Se un idolo si è visto nei pressi di Fuorigrotta negli ultimi dieci anni, quello è Stefan Schwoch che ha trascinato a suon di goal il Napoli di Novellino in serie A, oppure l'impagabile Montervino che sente la maglia azzurra come una seconda pelle. Lavezzi deve prendere soprattutto ripetizioni di professionalità, perchè probabilmente il male che ha afflitto il Napoli versione horror, da gennaio in poi, non va identificato nell'Intertoto, nella preparazione anticipata o nella rosa corta, quanto nella "Dolce Vita" che troppi calciatori azzurri si sono concessi. La società conosce nomi e cognomi, e De Laurentiis, dall'alto della sua preparazione cinematografica e gestore in prima persona delle vicende napoletane (ha scelto Donadoni quando Marino avrebbe voluto confermare Reja, si è impuntato sulla questione diritti di immagine e contro i giocatori indecisi), sa bene che i vitelloni che scambiano il giorno con la notte e vivono al di là dei propri impegni e canoni di condotta, vanno poi a scontrarsi con la dura realtà della vita, dove gli idoli diventano uomini e gli uomini, certe volte, retrocedono a caporali.

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Lunedì 31 Dicembre 2018
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