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La Stampa - Juve, Del Piero cacciatore di gol

di Andrea Losapio

Aspettando Godot (che segni o che esca), a novembre saranno trentaquattro. Alessandro Del Piero ci ha fatto il callo. Quando c'è una punizione, quando dalla panchina si alza una riserva, quando la notte diventa l'aula di un tribunale, quando, quando, quando. Risolvere i problemi o, nella peggiore delle ipotesi, segnalarli: i capitani servono a questo. Contro lo Zenit, contro il Real, quel destro che titilla lo stadio e sprigiona parabole diaboliche. Tutti ai suoi piedi. Tranne i suoi allenatori. E dire che ne ha avuti un sacco, nella Juventus e in Nazionale: italianisti classici (Trap, Cesarone Maldini) e flessibili (Zoff, Ranieri), fusignanisti (Sacchi, il capostipite) e derivati (Ancelotti, Donadoni), assemblatori (Lippi), domatori (Capello), impressionisti (Deschamps). Fino all'8 novembre del 1998, domenica in cui a Udine si sfracellò il ginocchio sinistro, Del Piero abitava al numero dieci di via della Fantasia.

Come Francesco Totti, di due anni più giovane. Come Roberto Baggio, che la Triade aveva spedito al Milan perché non gli facesse ombra. Ecco: una volta, gli spalancavano la dispensa, oggi gli razionano la carne. Una vita da seconda punta non è meno romantica e musicale della vita da mediano. Ancelotti lo attese dopo l'infortunio, Capello l'ha sacrificato a Ibrahimovic e Trezeguet, Lippi, in Germania, se l'è portato dietro e l'ha schierato titolare solo una volta, con l'Australia. Naturalmente, lo sostituì. Donadoni l'ha convocato per gli Europei austro-elvetici, salvo lasciargli scrivere dall'inizio non più che il capitolo romeno. E nel «quarto» con la Spagna, gli errori di De Rossi e Di Natale lo sollevarono dall'onore (e l'onere) di battere il quinto e ultimo rigore. Di Natale, già. E prima di lui Totti, Baggio, Cassano, Ibra. Sempre uno di mezzo.

E quelle staffette: Trapattoni che, a Daejeon, lo «licenzia» sull'1-0 per far posto a Gattuso; risultato finale, 2-1 per la Corea, ciao Mondiale; oppure Ranieri che a Marassi, nel corso di Sampdoria-Juventus 3-3, lo toglie nella ripresa «dimenticando» lo sprint in famiglia con Trezeguet per lo scettro di capocannoniere. Se queste sono le uscite dettate dalla ragion di Stato (?), non mancano le entrate d'emergenza. Una delle più clamorose risale al 12 febbraio 2006, Inter-Juventus a San Siro. Fuori Ibrahimovic e dentro Del Piero, in panchina Capello, sugli spalti ottantamila. Punizione dal limite, Ale dipinge una traiettoria che sfugge al radar di Julio Cesar, Inter uno, Juve due. E i telefoni, almeno quella sera, rimasero muti. Toccata e fuga. Del Piero ha imparato a convivere con la precarietà dei giudizi e il logorio dell'età.

Ogni tanto cambia preparatore, a ogni gol mostra la lingua: è diventato un cacciatore di episodi, dopo l'abbuffata di reti fra la serie B e la serie A, in regime di una partita la settimana. Il bello è che si parla troppo del "durante Del Piero", cioè di adesso, e troppo poco del "dopo Del Piero", come se fosse facile scovare un candidato alla sua altezza: in condizioni normali, avrebbe potuto essere Mutu. Alessandro ha superato lo scoglio-farmaci e il letamaio di Calciopoli, ma non la diffidenza che, come il fastidioso ronzio di una zanzara, ne accompagna i safari. Quante volte lo abbiamo supplicato di fare un passo indietro, quante volte lo abbiamo invitato a coccolarsi i giovani che, sognando Del Piero, potrebbero un giorno prenderne il posto, un nome a caso: Giovinco. La Juve è Del Piero, e Del Piero è la Juve. Non più nelle dosi massicce della scapigliatura, quando divorava le stagioni, ma sempre a livelli di affetto assoluto ed effetti speciali. Con i simboli non si scherza. Vorrebbe giocare ovunque e comunque. Non può e non deve. Il calendario è fitto, lasci scegliere il menù a Ranieri. Certo, il gol di martedì sera non ha tessera, appartiene all'arte. Più Godot ha l'acqua alla gola, più la sua classe non è acqua. Aspettando il prossimo gol, il prossimo cambio, la prossima lingua.

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Lunedì 31 Dicembre 2018
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